Potare è un’arte, non è che afferri una roncola e cominci a tagliare ramaglia – disse un giorno mio zio – raccogliere lo può fare chiunque, pure tu, basta che allunghi la mano e afferri il limone e poi lo strappi con un colpo secco e a girare, che al limone gli resta attaccato il peduncolo e si presenta meglio; è potare che è complicato, va fatto con maestria e cervello, più cervello che maestria, se vuoi avere un raccolto abbondante la stagione successiva; bisogna capire dove dare il colpo – il taglio va fatto di traverso a una delle due biforcazioni di un ramo lasciando in vita quella più robusta –, eliminare i figliolini o sancisùghi, i germogli che si dipartono dal tronco e tolgono linfa alla pianta: questi sancisùghi sono cosazze inutili, appartengono alla pianta madre perché il limone non esiste come albero, si parte sempre dall’arancio amaro o dal pompelmo che, quando il tronco è due dita, si tagli e si fa l’innesto, così la pianta ammansisce; ricorda, il limone non nasce da limone, limone si diventa. […] «La roba di tempo si raccoglie tra novembre e febbraio, è il frutto della zagara primaverile – dà limoni che cantano –, ma da queste parti le piante fanno limoni due volte l’anno, come i cagnòli, una volta in autunno e una volta d’estate – la produzione forzata – ma stai attento, non è cosa di tutti, ci devi sapere fare, la pianta parla e la devi ascoltare, le devi guardare le foglie, i pampini, a luglio va sfoltita – in quel momento nascosti ci sono i limoni piccoli: si tagliano i rami in eccesso, certo qualche limone se ne va lì in mezzo alle frasche, ma quelli che restano – che meraviglia! – si ingrassano, diventano una gioia. È a questo punto che interviene il maestro campagnolo: toglie l’acqua. Sì, alla pianta gli fa desiderare l’acqua. La chiamano patiènza: la pianta va in sofferenza, le foglie si afflosciano, lei impreca acqua, te la chiama, abbìvirami abbìvirami, lei dice, abbìvirami, certo chi ne capisce qualcosa può sentire la voce soffocata, non certo tu che sei una patella da scrivania…». «Hai rotto i coglioni» dice Antonio. «Questa è roba importante, roba di campagna, stai zitto e ascolta, allora, ti dicevo: il maestro campagnolo non si commuove, patisci pianta, patisci, e lei intanto abbìvirami abbìvirami ma tranquillo, è tutto sotto controllo, il campagnolo sa quello che sta facendo. La pianta desidera e lui intanto beve dal bùmmolo di terracotta che si porta dappresso – alla faccia della pianta che grida abbìvirami. Il maestro campagnolo guarda il cielo, lo vede giallo come il sole e dice: ancora è presto; afferra il bùmmolo e si cala altro mezzo litro di acqua; la pianta lo guarda e non dice più abbìvirami abbìvirami, gli grida un’altra cosa, devi morire di subito con l’acqua ai polmoni e buttare sangue dal cuore a riempire una vasca e farti il bagno – che la pianta quando c’è da parlare con tutti i sentimenti, se la fida. Poi, arrivati a tre quarti di luglio, il campagnolo si decide e organizza la prima abbeverata, la prima viciènna. Finalmente la pianta la smette di gridare abbìvirami e di insultare la madre del contadino». «Bene, non rompe più i coglioni» dice Antonio. «Zitto. Si dà l’acqua di notte perché il sole non la deve vedere, la terra così se la succhia tutta, non ne lascia manco una goccia. A tre quarti di luglio. Due settimane dopo, a occhio e croce, la seconda botta d’acqua, ovvero la seconda viciènna, ma è il campagnolo a decidere quando, se qualche giorno prima o qualche giorno dopo, se dargliene tanta oppure di meno; decide pure se è il caso di dare una terza viciènna. La pianta si prende l’acqua, tutta quella che può, le radici assorbono e lei attisa, diventa verde brillante come una femmina che si prepara per andare a una festa, e poi ringrazia: spara. Si riempie di fiori e ogni fiore è un limone e tutti questi limoni li raccogli all’inizio dell’estate successiva. Li chiamano verdelli o bastarduna (questa è mercanzia che te la vendi a peso di tutti denari). Negli altri posti della Sicilia la produzione forzata non la fanno – non sanno parlare con l’albero –, perché di coltivare le piante così sono esperti i bagheresi che loro strozzano gli alberi e pure il territorio». «Hai finito di parlare come don Ciccio?» dice Antonio. «Ho finito» dico io. «Bene». «Sto andando a Bagheria, vieni?». «Vai pure, ho deciso di dipingere dei limoni muffiti».
G. D’Amato, L’estate che sparavano, Messina, Mesogea, 2012, pp. 19, 43-44.
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