Anemos – il vento della Poesia

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Anemos è il soffiare del vento che ispira la genesi poetica, l’ispirazione che è la scintilla di ogni atto creativo, di quel processo meraviglioso che svela la parola creatrice di mondi e di bellezza. Questo canale YouTube nasce con l’intento di condividere questa bellezza, di soffiare come questo vento sulla coscienza delle persone, svelando e ricordando i valori assoluti che percorrono le opere mito della storia dell’umanità, riascoltando le loro verità, viaggiando come astronauti negli universi che nascondono, solcando l’infinito dello spazio e del tempo.

A cura del Prof. Salvatore Lo Bue.

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Poiesis: il mistero della genesi poetica

I cinque discorsi di Savitri alla Morte: il Logos si fa donna

Il Mahābhārata e il messaggio della Bhagavadgītā

L’epopea di Gilgamesh: un viaggio oltre la morte

L’Iliade di Ettore, guerriero perché padre

L’Odissea: il pianto di Ulisse

Il velo di Iside: dal mito alla leggenda

Dioniso e Cristo: le verità dei Misteri Eleusini

Esiodo: l’incubo di un mondo senza giustizia

Saffo: l’invenzione dell’amore e la rivoluzione della lirica

Eschilo: l’origine del patriarcato

Edipo: destino e libertà

 

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Non andartene docile in quella buona notte di D. Thomas

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Non andartene docile in quella buona notte,
La vecchiaia dovrebbe ardere di furore
Alla fine del giorno;
Esplodi la tua rabbia alla luce che muore.

Sebbene i saggi sentano alla loro morte
Giusto il buio perché non corse lampo intorno
Alle loro parole,
Docili non se ne vanno in quella buona notte.

Strillando all’onda estrema con quale splendore
In una verde baia avrebbero le loro
Gracili gesta danzato, i buoni di cuore
Esplodono di rabbia alla luce che muore.

Gl’impulsivi che colsero cantando il sole
Al volo e troppo tardi appresero il dolore
Che avevano arrecato alle sue rotte,
Docili non se ne vanno in quella buona notte.

Con vista cieca scorgendo in punto di morte
Che cieco l’occhio avrebbe gioito un bagliore
Di meteore, quelli che ebbero rigore
Esplodono di rabbia alla luce che muore.

E tu, tu padre mio, lì sulla triste vetta,
Ti prego maledici, benedicimi ora
Con lacrime che chiedono vendetta.
Non andartene docile in quella buona notte.
Esplodi la tua rabbia alla luce che muore.

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Limoni di G. D’Amato

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Potare è un’arte, non è che afferri una roncola e cominci a tagliare ramaglia – disse un giorno mio zio – raccogliere lo può fare chiunque, pure tu, basta che allunghi la mano e afferri il limone e poi lo strappi con un colpo secco e a girare, che al limone gli resta attaccato il peduncolo e si presenta meglio; è potare che è complicato, va fatto con maestria e cervello, più cervello che maestria, se vuoi avere un raccolto abbondante la stagione successiva; bisogna capire dove dare il colpo – il taglio va fatto di traverso a una delle due biforcazioni di un ramo lasciando in vita quella più robusta –, eliminare i figliolini o sancisùghi, i germogli che si dipartono dal tronco e tolgono linfa alla pianta: questi sancisùghi sono cosazze inutili, appartengono alla pianta madre perché il limone non esiste come albero, si parte sempre dall’arancio amaro o dal pompelmo che, quando il tronco è due dita, si tagli e si fa l’innesto, così la pianta ammansisce; ricorda, il limone non nasce da limone, limone si diventa. […] «La roba di tempo si raccoglie tra novembre e febbraio, è il frutto della zagara primaverile – dà limoni che cantano –, ma da queste parti le piante fanno limoni due volte l’anno, come i cagnòli, una volta in autunno e una volta d’estate – la produzione forzata – ma stai attento, non è cosa di tutti, ci devi sapere fare, la pianta parla e la devi ascoltare, le devi guardare le foglie, i pampini, a luglio va sfoltita – in quel momento nascosti ci sono i limoni piccoli: si tagliano i rami in eccesso, certo qualche limone se ne va lì in mezzo alle frasche, ma quelli che restano – che meraviglia! – si ingrassano, diventano una gioia. È a questo punto che interviene il maestro campagnolo: toglie l’acqua. Sì, alla pianta gli fa desiderare l’acqua. La chiamano patiènza: la pianta va in sofferenza, le foglie si afflosciano, lei impreca acqua, te la chiama, abbìvirami abbìvirami, lei dice, abbìvirami, certo chi ne capisce qualcosa può sentire la voce soffocata, non certo tu che sei una patella da scrivania…». «Hai rotto i coglioni» dice Antonio. «Questa è roba importante, roba di campagna, stai zitto e ascolta, allora, ti dicevo: il maestro campagnolo non si commuove, patisci pianta, patisci, e lei intanto abbìvirami abbìvirami ma tranquillo, è tutto sotto controllo, il campagnolo sa quello che sta facendo. La pianta desidera e lui intanto beve dal bùmmolo di terracotta che si porta dappresso – alla faccia della pianta che grida abbìvirami. Il maestro campagnolo guarda il cielo, lo vede giallo come il sole e dice: ancora è presto; afferra il bùmmolo e si cala altro mezzo litro di acqua; la pianta lo guarda e non dice più abbìvirami abbìvirami, gli grida un’altra cosa, devi morire di subito con l’acqua ai polmoni e buttare sangue dal cuore a riempire una vasca e farti il bagno – che la pianta quando c’è da parlare con tutti i sentimenti, se la fida. Poi, arrivati a tre quarti di luglio, il campagnolo si decide e organizza la prima abbeverata, la prima viciènna. Finalmente la pianta la smette di gridare abbìvirami e di insultare la madre del contadino». «Bene, non rompe più i coglioni» dice Antonio. «Zitto. Si dà l’acqua di notte perché il sole non la deve vedere, la terra così se la succhia tutta, non ne lascia manco una goccia. A tre quarti di luglio. Due settimane dopo, a occhio e croce, la seconda botta d’acqua, ovvero la seconda viciènna, ma è il campagnolo a decidere quando, se qualche giorno prima o qualche giorno dopo, se dargliene tanta oppure di meno; decide pure se è il caso di dare una terza viciènna. La pianta si prende l’acqua, tutta quella che può, le radici assorbono e lei attisa, diventa verde brillante come una femmina che si prepara per andare a una festa, e poi ringrazia: spara. Si riempie di fiori e ogni fiore è un limone e tutti questi limoni li raccogli all’inizio dell’estate successiva. Li chiamano verdelli o bastarduna (questa è mercanzia che te la vendi a peso di tutti denari). Negli altri posti della Sicilia la produzione forzata non la fanno – non sanno parlare con l’albero –, perché di coltivare le piante così sono esperti i bagheresi che loro strozzano gli alberi e pure il territorio». «Hai finito di parlare come don Ciccio?» dice Antonio. «Ho finito» dico io. «Bene». «Sto andando a Bagheria, vieni?». «Vai pure, ho deciso di dipingere dei limoni muffiti».

G. D’Amato, L’estate che sparavano, Messina, Mesogea, 2012, pp. 19, 43-44.

 

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I Ragazzi della Via Paal di F. Molnár

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Ferenc Molnár, I Ragazzi della Via Paal, Milano, Opportunity Book, 1995, 159 pp. (Classici Junior, 13), ISBN 88-8111-013-X.

Ho letto questa storia all’età di dieci anni. Era uno dei miei primi libri. Non riuscivo a capire in che periodo fosse ambientato il racconto e nemmeno quale fosse la città teatro della storia. Tuttavia ricordo perfettamente quei compagni di giuoco. Giovanni Boka era il leader che stimavo, l’amico che desideravo nella solitudine estiva di quegli anni in cui tutto era scoperta e voglia di conoscere. Forse in me c’era qualcosa del piccolo Ernesto Nemecsek, fragile e poco coraggioso. Non era necessario immaginare i luoghi di quelle appassionanti battaglie e di quelle pericolosissime missioni: quei posti li conoscevo bene, li vedevo, li frequentavo nei pomeriggi votati a qualche fantasioso passatempo con dei crudeli amici, che erano, sì cattivi e crudeli come la squadra delle famigerate Camicie Rosse, ma non così ingegnosi e geniali.
Ricordo perfettamente che la mia scuola elementare – un edificio degli anni trenta, tanto imponente quanto freddo – era identica a quella del racconto. Lo stucco delle finestre non l’ho mai masticato e non immagino nemmeno che sapore abbia, però posso dire di comprendere quanto fosse duro custodire un segreto e sopportare le ingiurie a costo di difenderlo. Qualche piccolo segreto era lo stucco che custodivamo in pochi nelle stradine sterrate. Continua a leggere

A Casteldaccia viveva una civetta…

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A Casteldaccia viveva una civetta. Così i bambini narrano. Forse è solamente una storiella di bambini o una leggenda. Si dice che abitasse tra i rami di quel grande albero che ombreggiava quel piccolo asilo.
L’albero era maestoso, imponente, alto e frondoso; i rami erano fitti e il terreno riempivano d’aghi; l’aria profumava di bosco. Doveva essere sicuramente una gran bella casa per quel misterioso uccello notturno.
Non ho mai visto una civetta e non ho mai visto quella. Tuttavia, la immagino volare sopra i nostri tetti a scacciare gli spiriti malvagi e a tenere lontane le creature della notte. Sono sicuro che proteggesse il sonno dei bambini. Mi confortava sapere che una civetta sorvolasse e vigilasse su Casteldaccia. Civetta, simbolo di prudenza e di saggezza, come nell’antica Atene, dove essa era sacra alla Dea.
Chissà quanti bambini di quell’asilo sotto l’albero hanno visto quella civetta, o l’hanno sentita stridere o squittire, oppure hanno notato qualcosa muoversi o appollaiarsi tra i rami del grande albero. Chissà quanti bambini essa ha protetto.
Adesso il grande albero è stato abbattuto, sradicato. Ogni ramo è stato tagliato e gli aghi spazzati via. La civetta è stata costretta a volare via verso un nuovo nido. Così cacciata, la civetta non è stata più in grado di proteggere l’asilo. Una ruspa ha fatto il suo dovere…
E ora costruiscono, chissà cosa, chissà per chi. Di certo non un asilo più grande, di certo non un parco. Di certo non un nido per la civetta.
Tornava una civetta al tetto… e non trovò più l’albero. E non ne trovò altri a Casteldaccia, solo tetti, solo antenne, lampioni e rovine di panchine. Nemmeno una villetta comunale, nemmeno un giardino per i bambini. Casteldaccia non è un paese per civette…
Chissà dove è andata ora la civetta. Chissà, se a una civetta lo affittano un albero, o se i prezzi sono esorbitati anche solo per locare un ramo. Forse ci sono molti rami e nidi invenduti e senza inquilini… un po’ come quella schiera di casupole costruite ogni anno a Casteldaccia. Ma allora perché continuano a costruire le case e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba, non lasciano l’erba

Lorenzo Cusimano, Casteldaccia, 2014.

 

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O creatore del firmamento stellato di Boetio

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O creatore del firmamento stellato,
che assiso su eterno trono
volgi il cielo con rapido vortice
e assoggetti le stelle alla tua legge,
sì che la luna, or splendente nel suo pieno disco
rivolta ai raggi diretti del fratello
oscura le stelle minori,
ora pallida nel suo oscuro disco
più vicina a Febo perde il suo splendore,
e colei che come Vespero sul far della notte
riconduce il sorger delle gelide stelle,
di nuovo, come Lucifero,[1] cambia il suo solito corso,
impallidendo al sorger del sole.
Tu, al rigor del primo inverno che fa cadere le foglie,
raccorci la luce in più breve durata,
tu, al sopraggiungere della torrida estate,
assegni alla notte veloci le ore.
La tua potenza regola il mutar delle stagioni,
sicché le fronde che il soffio di Borea porta via
tenere le riconduce poi Zefiro,
e quelle che Arturo vide come sementi,
Sirio le dissecca come alte messi;
nulla sciogliendosi dall’antica legge
si sottrae alla funzione che gli è propria.
Tutto governando con sicuro destino,
i soli atti umani rifiuti tu, reggitore,
di imbrigliare nella debita misura.
Perché infatti la fortuna fallace
volge sì grandi vicende? Opprime gli innocenti
la dura pena dovuta al delitto,
mentre voleri perversi si assidono
su alto trono e i malfattori, con iniquo scambio,
calpestano il capo dei giusti.
La chiara virtù avvolta in oscure tenebre
giace nascosta e il giusto sconta
le colpe degli iniqui.
Proprio a costoro nulla nuoce lo spergiuro,
nulla la frode adorna di ingannevole colore.
Ogni qual volta poi essa decide di usare le sue forze,
gode di assoggettare a sé i più grandi re
che popoli innumerevoli temono.
Oh, volgiti ormai a riguardare la misera terra,
chiunque tu sia che coordini l’armonia delle cose!
Parte non vile di tanta opera,
noi uomini siamo sballottati nel mare della sorte.
La violenza dei flutti, o reggitore, tu calma
e mediante la legge con cui reggi l’immenso cielo
rinsalda stabilmente la terra.

Boezio, Consolatio Philosophiae, 1, V.

[1] Vespero e Lucifero indicano Venere, nomi con cui i poeti latini chiamavano il pianeta «portatore di luce» in quanto precede il sorgere del sole.

 

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Ogni natura umana di H. Hesse

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Ogni natura umana ha i suoi lineamenti caratteristici, il suo marchio, le virtù e i vizi, il suo peccato mortale. Uno dei caratteri del lupo della steppa era quello di essere un uomo serale. Per lui il mattino era la parte cattiva della giornata che egli temeva e non gli portò mai alcun bene. Egli non fu mai lieto in nessuna mattinata della vita, non ha mai fatto nulla di bene prima di mezzogiorno, mai avuto buone idee, mai fatto cosa grata a sé o agli altri. Solo durante il pomeriggio si scaldava lentamente e diventava vivo, soltanto verso sera, nelle giornate buone, diventava fecondo, attivo e persino ardente e lieto. Per questo aveva tanto bisogno di solitudine e d’indipendenza. Nessuno ha mai avuto un bisogno più profondo e più appassionato di essere indipendente. Da giovane, quando era ancora povero e faceva fatica a guadagnarsi il pane, preferiva soffrir la fame e andar intorno stracciato pur di salvare un brano della sua indipendenza. Non si è mai venduto per denaro o benessere, non si è mai dato alle donne o ai potenti, e mille volte ha buttato via e rifiutato quello che secondo tutti sarebbe stato il suo bene e il suo vantaggio, pur di conservare in compenso la libertà. Nessun’idea gli era più odiosa e ripugnante che quella di avere un impiego, osservare un orario, obbedire agli altri. Odiava gli uffici e le cancellerie come la morte, e la cosa più orrenda che gli potesse capitare in sogno era la prigionia in una caserma. A tutte queste sciagure seppe sottrarsi, spesso anche con grandi sacrifici. In ciò consistevano la sua forza e la sua virtù, qui era inflessibile e incorruttibile e il suo carattere era saldo e rettilineo. Ma con questa virtù erano anche strettamente collegate le sue sofferenze e la sua sorte. Capitò a lui ciò che capita a tutti: quel che cercava con ostinazione per l’intimo bisogno della sua natura egli lo raggiunse, ma più di quanto sia bene per l’uomo. Ciò che da principio fu il suo sogno di felicità, divenne in seguito il suo amaro destino. L’uomo avido di potere incontra la sua rovina nel potere, l’uomo bramoso di denaro nel denaro, il sottomesso nella servitù, il gaudente nel piacere. E così il lupo della steppa si rovinò con l’indipendenza. La meta egli la raggiunse e divenne sempre più indipendente, nessuno gli comandava, non era costretto a seguire nessuno e decideva liberamente delle sue azioni e omissioni. Ogni uomo forte infatti raggiunge immancabilmente ciò che il suo vero istinto gli ordina di volere. Ma raggiunta la libertà Harry s’accorse a un tratto che la sua libertà era morte, che era solo, che il mondo lo lasciava paurosamente in pace, che gli uomini non lo riguardavano più né lui riguardava se stesso, che soffocava lentamente in un’aria sempre più rarefatta senza relazioni e senza compagnia. Infatti era arrivato al punto che la solitudine e l’indipendenza non erano più un’aspirazione, una meta, bensì la sua sorte, la sua condanna; e una volta pronunciata la formula magica senza poterla più ritirare, a nulla gli serviva tendere le braccia con desiderio e buona volontà ad essere disposto a cercar legami e comunioni: tutti lo lasciavano solo. Non che fosse odioso o antipatico alla gente. Al contrario, aveva moltissimi amici. Molti gli volevano bene. Ma quella che incontrava era soltanto simpatia amichevole; lo invitavano, gli facevano regali, gli scrivevano lettere garbate, ma nessuno gli si accostava, nessuno si legava a lui, nessuno aveva la voglia o la capacità di condividere la sua vita. Adesso era circondato dall’aria dei solitari, da un’atmosfera tranquilla, dall’incapacità di rapporti col mondo che gli scivolava via, e contro questo stato di cose nulla potevano la volontà e la nostalgia. Questo era uno dei tratti più caratteristici della sua vita.

H. Hesse, Il lupo della steppa, 1927, pp. VIII-X.

 

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Abbiamo smesso di fumare

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Abbiamo smesso di fumare
per amarci e nelle bocche
nostre piene di parole
e di baci profumare.

Adesso te ne vai
senza una cagione, spegnendo
una sigaretta con una mano
fredda su un cuore
bruciato dal gelo,
come dalle tue risposte.

E che ne sarà del tabacco,
– mi chiedo – che avevamo
nascosto per non fuggire
alle nostre tentazioni?
e che ne sarà di quei rametti
che abbiamo succhiato
per sentirci liberi e felici?

Abbiamo smesso di fumare
e tu vai via, dimenticando
i giorni e non gli anni,
dimenticando i ruoli e gli orari
in cui dovevamo scappare
e gioire dell’inverno.

Abbiamo smesso di fumare
ed hai spento la tua
ultima sigaretta su di me
che non ero pronto ad amarti
e che non volevo lasciarti.

Lorenzo Cusimano, Menzogne, Ivrea, 2017.

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Forse v’è della tristezza

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Forse v’è della semplice tristezza
nel modo tutto nostro di guardare
alla vita. Con il pensiero al mondo
e un’altra vana speranza nel cuore
che s’illude, oggi cresce il grande salto
che ho nell’animo muto. E non so a cosa
pensare e cosa dire a chi ne chiede.
Un fremito ancora dietro la schiena
vorrei e pensare a lei nuda sul letto
estivo ed a te che nulla hai con me.
E poi una volta ancor giunge la sera
nella stanza gelata e silenziosa.

 

Lorenzo Cusimano, Menzogne, Ivrea (Italy), 2017.

 

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Coricarsi nella solitudine

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Coricarsi nella solitudine
della sera in una casa vacante
e sconosciuta, mentre
tu ignori le lacrime
dei giorni e delle scelte.
Solo il biancore delle mura spoglie
ha un senso vero in questo autunno freddo
torinese. Le candide pareti
mi ricordano ancora le tue mani
e i tuoi sorrisi, non dimenticando
i motivi e le divisioni, mentre
il secolo si prepara alla guerra.
Giungono i segnali al color del sole
quando è giunto il momento
di mettersi a letto. Non i tuoi attesi.

Rincorrersi nella sera
tra la solitudine
di una casa vuota
è un leggero morire
senza speranza di una resurrezione.
Qui ancora aspetto
che tu mi scriva, pur sapendo
che il silenzio sarà il mio
miglior compagno
per una bevuta di glen grant.

 

Lorenzo Cusimano, Menzogne, Ivrea (Italy), 2017.

 

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